L'anima e il vento
di Flavio Caroli
La nuova stagione espositiva del MAGA si apre sotto i crismi della pittura e della qualità. Attenzione: non è per nulla detto che i precedenti due termini debbano per forza andare insieme. C’è una qualità dell’arte contemporanea che non si manifesta affatto con gli strumenti della pittura. Così come si produce tanta pittura che tutto fa meno che rispondere agli imperativi della qualità.
Intendiamo dire – per essere del tutto chiari – che questa non intende essere una mostra “antimodernistica” e di “conservazione”. Non sono conservatori ne’ i due protagonisti della rassegna, Omar Galliani e Alessandro Busci, ne’ l’ideatore e curatore della medesima. Sia anzi lecito precisare che quest’ultimo ha una storia – valga quel che valga – legata alle avanguardie. Ne ha viste e partecipate due, in vita sua: quella dell’Arte Povera in una indimenticabile Roma di fine Anni Sessanta; e quella della “Nuova Immagine”, o della Transavanguardia, in una fremente scena internazionale nella quale le idee e i valori rimbalzavano da Los Angeles a Berlino, da Londra a Vienna, con la velocità della luce.
L’avanguardia è inebriante. L’idea di “essere avanti” è quasi drogata, e chi ne abbia percepito l’ebbrezza non potrà mai essere “antimodernista” e conservatore. Ma appunto l’avanguardia non è questione di tecnica esecutiva. E’ questione di magia. E la magia può crearsi con tutti i materiali e tutte le tecniche.
Se oggi ci occupiamo di pittura è perché l’immagine dipinta, diciamo negli ultimi trenta-trentacinque anni, ha affrontato una scommessa particolarmente poderosa: l’azzardo di impugnare in toto un’immagine “artigianale” che però fosse in grado di affrontare i temi più avanzati dell’immaginario “moderno”.
I due protagonisti di questa mostra, figli di diverse generazioni (con il bagaglio mentale che ciò comporta), hanno osato; e hanno avuto successo, nel senso che sono stati e sono “all’avanguardia” nella creazione di immagini per il futuro.
Per questo il sottotitolo di questa rassegna recita, citando Franco Battiato (artista totalmente coinvolto nel ruolo creativo di cui stiamo parlando: chi scrive lo ricorda operatore “visivo”), “Centro di gravità permanente”. Negli ultimi trenta-trentacinque anni, non si è cercato altro: un peso a fondo, un’ancora cui agganciare le avventure della fantasia. L’ancoraggio della Qualità.
Una qualità, o un’idea di qualità, che i nostri due protagonisti hanno giocato naturalmente a modo loro, seguendo gli input inevitabili della loro storia, o addirittura del loro destino. Io non so se la differenza dei rispettivi mondi poetici sia dovuta al passaggio di civiltà avvenuto nei diciassette anni che separano le loro date di nascita. Sospetto di sì. Sospetto che il mondo fantastico di Galliani partecipi naturalmente all’universo poetico (arcaico e magico) di John Milius e di un film come “Conan il Barbaro” (1982), che infatti l’artista, quasi trentenne, amò e citò in una sua opera. E sospetto che la poesia di Busci sia quella cresciuta in un bambino che immaginava il futuro e, nello stesso anno 1982, si sentì coinvolto dalle arie dolorose e futuribili di Ridley Scott e di “Blade Runner”. Ho forti sospetti in questa direzione, ma non posso dimostrare nulla. So di certo – poiché ho conosciuto entrambi gli artisti poco più che ventenni – che l’universo poetico (ripeto la parola) che si portavano dentro era potenzialmente già definito ai loro esordi, e il tempo non ha fatto che portare maturazione, pienezza, consapevolezza in ciò che intendevano dire, e nel modo con cui era inevitabile dirlo.
Galliani ventenne era perso principalmente in due ambizioni. In una ricerca di magia, di seduzione, di fascino che è l’ossessione primaria di ogni grande artista, in qualsiasi tempo, sia egli tragico (Caravaggio), classico (Ingres) o fondamentalmente realista(Degas).Tutto cambia e tutto corre, ma non c’è grande artista quando non ci sia ricerca di Bellezza; di qualche forma di Bellezza. La seconda ossessione di Galliani era infatti la qualità esecutiva, proprio tecnica nel senso antichissimo del termine, della pittura e dei suoi misteri: cosa non facile in un tempo in cui i balbettii e la cattiva pittura parvero la chiave della modernità. Galliani otteneva risultati straordinari grazie ai miracoli realizzativi di una matita forse veramente fra le più dotate del secondo dopoguerra.
Nei trenta e più anni che ci separano da quei giorni, il miracolo non ha fatto che approfondirsi. Ed ecco il motivo per cui io mi sento sollevato e in fondo soddisfatto di avere scritto le pagine teoriche di un pensiero sull’arte degli Anni Ottanta che si intitolò “Magico – Primario”. Se il Magico significa Bellezza, e il Primario significa originarietà e essenzialità dell’invenzione artistica, Galliani incarna perfettamente queste pulsioni.
Quanto a Busci, nei primi Anni Novanta voleva dipingere, come Constable, l’odore della terra fradicia dopo il temporale, o l’emozione di cieli stracciati e arancione in aereoporti alla Ridley Scott da cui si partiva verso capitali arcane della fantasia, o verso il Nulla. Intitolò infatti una sua mostra “Acqua sporca. Luce marrone. Luce” . Materia. Emozioni della e nella materia. Colori. Colori che fanno corpo con la luce. Colori come materia, dunque, e forse pelle, e forse carne della pittura. Già: se Galliani è il “fiorentino” dell’arte del nostro tempo, Busci ne è forse il “veneziano”, la passione che fa corpo, non si sa come ma fa corpo e simbiosi, con la materia della rappresentazione.
Dalla sua torre che emana seduzioni arcaiche o sessuali, Galliani è Anima. Dalla sua garitta persa nelle steppe dell’universo, Busci è Vento. Insieme sono l’Anima e il Vento di una pittura moderna che difende una cosa soltanto, la qualità della rappresentazione.
Ma sì: li riteniamo esemplari di ciò che dovrebbe esporre un Museo d’Arte Contemporanea, oggi.