L’Ombre dans l’eau.
di Alessandro tiddia
L’Ombre dans l’eau.
Tracce e sedimenti del passato
nell’opera di Omar Galliani
“L’acqua che tocchi de fiumi è l’ultima che andò e la prima di quella che viene. Come il tempo presente”
Leonardo da Vinci
Il tema dell’acqua, così presente nell’opera di Galliani e centrale nell’odierna rassegna, è anche un soggetto caro a molta pittura del passato, specie a quella simbolista che rimeditava a sua volta la classicità e la cultura figurativa rinascimentale[1]: le superfici lacustri nella pittura simbolista sono i luoghi d’eccellenza delle ombre e dei riflessi, e l’acqua ferma dei canali o degli stagni è in grado di catturare l’immagine e di restituirla. Quasi come in una sorta di infinito gioco degli specchi, dove ogni riflesso viene arricchito dal precedente, il tema dell’acqua giunge dal passato ai grandi disegni qui esposti, che rivelano una serie di stimoli e ricordi visivi, più o meno inconsciamente colti da riferimenti all’arte del passato, di quella simbolista in particolare e, forse, divenuti parte del vissuto dell’artista.
Si tratta di una nuova angolazione da cui osservare la produzione di Omar Galliani, quasi come il simbolismo non fosse una categoria storica, ma un’attitudine esistenziale.
In quest’opera di disvelamento ci soccorre la qualità sinestetica della sua arte, che, in virtù della sua “acquaticità”, del potere riflettente dell’acqua, riesce a condurci verso territori vicini all’espressione figurativa, ma che possono essere esplorati grazie ad altri sensi, come l’udito o l’olfatto.
Certi lavori di Galliani, infatti, potrebbero evocare il profumo di un giardino acquatico, dove è possibile riconoscere l’odore dell’ombra, della terra bagnata della riva e delle bacche appesantite dai rami e dalle foglie più anziane che sono cadute a terra, ma anche la freschezza rigenerante di cespugli di rose all’alba o delle nebbie lungo i filari di pioppi che ornano i canali dei suoi luoghi di origine, odori che sono ricordi, mischiati a un sentore di essenze orientali, fra tutte l’incenso, che di nuovo richiama alla mente l’Oriente, ma che allo stesso tempo visualizza vapori e ritmi di ascesa e caduta.
Queste essenze, già decantate per le loro proprietà evocatrici da Baudelaire, nei Fiori del Male,[2] erano anche molto care alla cultura simbolista di Mallarmè e Debussy. Il riferimento al nome di Debussy non è casuale perché richiama un’altra sinestesia, questa volta musicale, che conduce verso uno dei più “acquatici” componisti del secolo scorso, che parlava spesso del profumo del suono, del fatto che la musica dovesse esser percepita da tutti i sensi perché l’ascoltatore potesse meglio immergersi in ciò che essa poteva evocare e perché potesse lasciare una scia, una sensazione, come una ventata di profumo.
Francesco Spampinato[3] declina così l’acquaticità della musica di Debussy: “Densa e immobile è l’acqua che attraversa i primi accordi della Cathédrale engloutie, preludio per pianoforte: questi suoni si muovono lenti in una brume doucement sonore e danno volume alla materia musicale facendo risuonare la tastiera del pianoforte in tutta la sua estensione. Le ovattate sonorità iniziali si sovrappongono e lasciano appena filtrare i lontani rintocchi provenienti dalle campane sommerse della cattedrale di Ys. In Reflets dans l’eau la luce è scomposta in un pulviscolo di riflessi dorati, rivolta, di tanto in tanto, dal fascino inquietante della profondità. […] Il mare, la fontana nel parco e l’acqua stagnante dei sotterranei del castello articolano la complessa simbologia della vita e della morte nell’opera Pelléas er Melisande.”[4]
Il suo componimento intitolato Les parfums de la nuit, rivolgendosi sia al senso olfattivo sia all’immaginazione visiva, richiamava alla mente la “poetica delle corrispondenze” di Baudelaire, precursore diretto del simbolismo, movimento che aleggiava nella Parigi di fine Ottocento e a cui la giovinezza e la formazione di Debussy furono strettamente legate.
L’esperienza dei poeti simbolisti e più in generale del Simbolismo contribuì a emancipare il suono in musica, come il segno in pittura, dalla convenzionalità realista, concorse ad aprire la percezione degli artisti verso una maggiore risonanza del mondo, cercata nella natura, nel vento, nel mare, nei boschi, nella vibrazione della luce e quindi dell’oscurità attraverso delle analogie, le famose ‘corrispondenze’ tra le cose visibili e l’assenza intelligibile di una realtà segreta, quella interiore.
Per questo motivo, la musica di Debussy procede per accenni; l’accenno e la sua indeterminatezza garantiscono all’immaginazione e al sentimento dell’ascoltatore la possibilità e quindi la libertà di definirsi, di continuare a risuonare. Questo, grazie anche una delle innovazioni da lui introdotte nella cultura musicale del tempo, l’arabesco, sottile combinazione di elementi floreali e geometrici, quasi un talismano magico per Debussy. Questa forma che derivava dalle arti figurative e che connotò moltissimo la stagione Liberty, era stata definita da Baudelaire “il più spirituale dei disegni” e il “più ideale”, poiché non soggiace al racconto o alla rappresentazione, non descrive, ma nel suo essere ornamento, decorazione, nel suo valore di “istantaneità” sta la sua astrazione, la sua tensione verso la spiritualità.
Così nella pittura di Galliani che fa della sua raffinata allusione a motivi orientali e arabescanti, una ragione seduttiva che attrae fino a condurci a quella soglia che separa mondo esteriore e universo interiore.
Spingendoci più in là, potremmo avvicinare la magia dell’arabesco alla forza fluttuante e vorticosa dei capelli disegnati da Galliani, quando l’artista si perde e ci fa perdere nei vortici di crocchie leonardesche, stabilendo una relazione fra arabesco, motivi floreali e vegetali Art Nouveau e le linee fluttuanti dei capelli femminili.
Si tratta di un’altra analogia condivisa da Galliani con Debussy sulla traccia di un confronto proposto dal filosofo francese di origini russe, Vladimir Jankélévitch[5], di “certi motivi melodici di Debussy con un fenomeno botanico, il geotropismo, cioè l’influenza della forza di gravità sull’orientamento di foglie e radici; si parla di geotropismo positivo e negativo, l’uno usato per indicare l’attrazione verso il centro di gravità, l’altro indica la tendenza degli steli a crescere allontanandosi dal centro della terra. Gli arabeschi di Debussy ricalcherebbero il fenomeno: in salita, creando un senso di sradicamento dato dalla sovrapposizione di accordi perfetti, ognuno dei quali relativo a una tonalità differente, che non danno continuità e un discorso musicale razionale, ma si limitano a esistere nello spazio. In discesa, l’arabesco debussiano simboleggia un sentimento di spavento e di fuga, di caduta, oppure di languore, in particolare sensuale”[6].
Riguardo al senso di caduta, questo elemento ricorre spessissimo nelle figurazioni di Galliani, diviene una sua precisa cifra distintiva anche quando si anima in un video di uno dei gruppi musicali più ipnotici e acquatici della scena musicale contemporanea, i Chemical Brothers, che in Wonder of the deep portano sullo schermo proprio quel fluire e cadere continuo, un flusso incessante di particelle, fiori, oggetti connotativi della figura evocata o effigiata, che allude al cosmo, in cui sono immerse le figure dei suoi dipinti, tanto che guardando una sua sala allestita con queste opere si potrebbe avere la sensazione di essere in un acquario.
I precedenti figurativi di questa idea corpuscolare di flusso vitale e cosmico erano presenti anche in Redon, per rimanere nell’ambito del Simbolismo francese e quindi in Klimt, che immerge le sue creature dai lunghi capelli rossi in ambienti amniotici (Serpenti d’acqua) o crea un flusso ascensionale di stelle in cui fluttuano i corpi scheletrici de La Medicina e de La Giurisprudenza, nei pannelli decorativi per l’Università che tanto suggestioneranno il giovane Casorati, di lì a qualche anno alle prese con le incisioni della Via Lattea.
Come Klimt, anche Casorati cercava nel dissolvimento notturno, in una pittura sempre più fatta di ombre (quella dei Notturni a San Floriano dei primi anni Dieci e delle sue incisioni fantastiche), quell’incontro fra interiorità e realtà, la linea che separa l’ombra dalla luce, terreno su cui sembra interessato a muoversi anche Galliani, con opere dove passato e presente si fondono.
Il presente comprende infatti il passato e questo pare particolarmente evidente nelle composizioni dell’artista proprio per il valore semantico che egli affida all’ombra, potente evocatrice della memoria, come l’acqua.
È in assenza della luce, o meglio in quella dimensione che non è né luce né oscurità, ma è formata da entrambe, l’ombra appunto, che riemergono i ricordi, come nella veglia prima del sonno. Quello stato evocato da quasi tutte le sue figure femminili con le palpebre abbassate, rinchiuse in un mondo, forse lo stesso richiamato un secolo prima da Fernand Khnopff, l’enigmatico artista belga che dipinse donne come silenziose sfingi con gli occhi chiusi, come in The Silver Tiara (1911, New York, Museum of Modern Art) e soprattutto immortalò con la stessa idea di mistero le acque immobili e incantate della sua Bruges.
Nelle composizioni di Galliani la luce non è una luce naturale, ma piuttosto un bagliore, riflesso di una luce interiore che attraverso il segno nero della grafite ripetuto come un mantra sulla tavola di pioppo ri-luce appunto e compie una magia, quella di fondere il paesaggio esteriore con quello interiore.
Prima di lui molti altri grandi artisti avevano amato la maniera nera, come luogo di incontro con la dimensione più celata, da Piranesi a Goya, Redon, Seurat, Kubin, Sironi.
Galliani entra in questo mondo apportandovi delle novità, sia linguistiche (si pensi alle proporzioni dei suoi disegni, totalmente inedite, e all’introduzione dei formati come il dittico e il trittico) sia legate al fare, che declinano la sua produzione grafica in un modo estremamente personale e originale.
Per la sua modalità espressiva riveste un ruolo determinante il processo dell’impronta di cui diremo a breve e il fatto di utilizzare come supporto al suo disegno non la carta, ma una tavola di legno, il morbido pioppo che lui prepara e incide prima di iniziare a ricoprire la superficie di tratti obliqui di matita, che pian piano rivelano, accanto alla figura disegnata, segni, punti, costellazioni, bagliori invisibili, prima del nero della grafite.
Questa tecnica potrebbe richiamare il frottage a cui era ricorso Max Ernst dal 1925 per il fatto di unire disegno e incisione (il supporto è inciso come una tavola per la xilografia), ma a differenza della tecnica del più onirico dei maestri del Surrealismo, l’azione di Galliani non prevede il rilievo che invece era una parte integrante del processo surrealista. Infatti il frottage pone sopra un oggetto in rilievo un foglio e ne segna i contorni con il ripasso della matita, facendo emergere quelle che Henry Michaux nel 1944 chiamava Apparitions (Apparizioni)[7].
Galliani invece lascia che siano la grafite e il segno impresso dalla sua mano a rivelare i segni incisi sulla tavola, come un’impronta al contrario.
Maestro del nero, Galliani risolve il rapporto fra fondo e figura con il ricorso alla tecnica dello sfumato per il quale la sua opera è stata spesso accostata a quella dei disegni di Leonardo. Non è questo l’unico punto di contatto, che può essere esteso all’interesse per l’anatomia, per quell’indagine che si concentra sul particolare anatomico che in Galliani può essere ingigantito oltre misura oppure può essere ricordato in piccoli fogli con annotazioni come nei codici leonardeschi.
L’interesse verso certe forme e modalità leonardesche è affermato in primis dallo stesso artista quando disegna il particolare dell’acconciatura della Leda leonardesca e ancora di più lo legano al genio rinascimentale i principi fisici e chimici dell’acqua e i suoi processi di trasformazione e movimento, l’evaporazione, la diluizione, la dissoluzione, la dissolvenza, la dilatazione, la corrosione, ben espressi da Leonardo nel suo Del moto e misura dell’acqua[8].
Allo stesso modo Galliani indaga ogni processo osmotico, metamorfico dell’acqua e delle sue reazioni con i supporti artistici, dal legno alla carta, dal pennello alla tavola di rame, a partire dai suoi primi lavori, quando nel 1977 l’acqua con i suoi processi evaporativi interviene sui fogli immersi in uno stagno e sull’Ofelia riprodotta, o nel 1979, quando in un luogo carico di valenze simboliche come quello fra il Museo Archeologico e la Fonte Aretusa in Sicilia immerge nuovamente suoi fogli con soggetti mitologici e lascia che la corrente e gli agenti contenuti nel fiume intervengano sulla sua opera in un’azione performativa intitolata La dea levò la fronte (1979-1980).
Egli è molto interessato al processo di evaporazione dell’acqua e alla formazione dei sali che si formano sui suoi fogli dopo un periodo di immersione, come nella grande figura galleggiante nella città d’acque per definizione, Venezia, nel 2010, ma anche al dissolvimento del suo segno sui fogli esposti alle piogge autunnali al pari del principio di corrosione che acqua e acidi infliggono alle lastre di rame trattate in modo da innescare un processo di ossidazione della materia che porterà a forme simili alle macchie di Victor Hugo e ancora prima alle chiazze e alle venature dei muri, suggerite da Leonardo come luoghi d’ispirazione.
Leonardo consigliava agli artisti del suo tempo di guardare le macchie sui muri, le venature dei marmi, le nuvole, la cenere per scorgervi paesaggi e animali, cose inusitate e mostruose, com’era solito fare lui stesso, abbandonandosi alla potenza evocatrice delle “cose confuse”, perché “nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni”.
L’atto di imprimere il rame e trovarvi forme e volti ci riporta al discorso dell’impronta, un segno che si riproduce sotto pressione e che Galliani trasporta, in una sorta di percorso a ritroso, dall’ambito consueto della calcografia al disegno su carta.
Un intero ciclo dei suoi lavori è dedicato infatti all’impronta speculare e simmetrica rilasciata dalla grafite di un suo disegno compresso contro un foglio bianco, come un dittico cartaceo, ove il disegno si ri-disegna, diventa riflesso simmetrico del primo, o la sua ombra disegnata. Questo procedimento ha portato a effetti molto singolari, ma soprattutto mette in luce uno dei principali temi legati al fare dell’artista: attraverso questi disegni l’apparente opposizione di due azioni, imprimere e riflettere, viene riassunta in un unico risultato che uniforma ombra, ripetizione, doppio.
Anche l’acqua può diventare impronta, come la larga scia fluttuante lasciata dal pennello intriso di acqua e colore su cui Galliani inserisce delle figure o come le gocce sparse sui fogli e testimoni di un processo dinamico, quello della caduta: così come l’acqua può essere lei stessa impronta, memoria.
Recenti studi hanno dimostrato che molecole d’acqua registrano forme diverse a seconda di suoni e melodie più o meno armonici, contribuendo a rafforzare la teoria che suoni, ma anche parole e pensieri, in quanto forme di energia possono modificare la materia o quantomeno la sua forma. Lo scienziato giapponese Masaru Emoto (1943 – 2012) ha documentato per più di quindici anni attraverso fotografie microscopiche il fatto che i cristalli dell’acqua assumono una forma armoniosa e simmetrica oppure completamente disordinata in base all’informazione che ricevono. Da qui la sua teoria della memoria dell’acqua: l’energia, o meglio la sua vibrazione, che sia sotto forma di suono (musica, voce o preghiere) o sotto forma di parole scritte o pensieri, può informare l’acqua che registra tale vibrazione (definita Hado dalla cultura giapponese) e muta la sua forma. Una scoperta determinante se pensiamo che il corpo umano è composto per oltre due terzi di acqua …
L’attenzione alle parole e alle loro definizioni nel tempo presente e passato ci porta verso un‘ultima riflessione, che poi rimanda al titolo e in un certo modo ci riporta al punto di partenza, ovvero il significato della parola “ombra” nella sua equivalenza di immagine riflessa, che ha le radici nella letteratura trobadorica del 1200: nel Roman de la rose, ad esempio, “l’ombre” è spesso citata con il senso di immagine riflessa[9].
È questo il tema centrale di un componimento determinante per la cultura letteraria medievale e quindi rinascimentale[10], che comincia e termina con due episodi, insieme opposti e simmetrici, inerenti appunto all’amore per un’ymage: Narciso e la propria immagine riflessa da una parte, Pigmalione e la propria immagine artisticamente scolpita dall’altra, entrambi icone dell’innamoramento, del desiderio d’amore.
Per tutta la letteratura trobadorica e non solo, focalizzare l’attenzione su un’immagine costituisce l’atto di innamoramento, tale da rapire il soggetto dalla realtà. Questo rapimento conduce a morte certa, se non viene arginato. Ne sa qualcosa Narciso, come svela il racconto: “Qui conta come Narcis s’innamorò dell’ombra sua. Narcìs fu molto buono e bellissimo cavaliere. Un giorno avenne ch’elli si riposava sopra una bellissima fontana, e dentro l’acqua vide l’ombra sua molto bellissima. E cominciò a riguardarla, e rallegravasi sopra alla fonte, e l’ombra sua facea lo simigliante. E così credeva che quella ombra avesse vita, che istesse nell’acqua, e non si accorgea che fosse l’ombra sua. Cominciò ad amare e a innamorare sì forte, che la volle pigliare. E l’acqua si turbò; l’ombra spario; ond’elli incominciò a piangere. E l’acqua schiarando, vide l’ombra che piangea. Allora elli si lasciò cadere ne la fontana, sicché anegò. Il tempo era di primavera; donne si veniano a diportare alla fontana; videro il bello Narcìs affogato. Con grandissimo pianto lo trassero della fonte e così ritto l’appoggiaro alle sponde; onde dinanzi allo dio d’amore andò la novella. Onde lo dio d’amore ne fece nobilissimo mandorlo, molto verde e molto bene stante, e fu ed è il primo albero che prima fa frutto e rinnovella amore”.
Agli occhi di un lettore medievale, l’errore di Narciso era quello di aver scambiato un’immagine per una creatura reale: in realtà la causa della caduta è l’ossessivo vagheggiamento di un’immagine, la costruzione di un simulacro dell’assenza, comune a Narciso come a Pigmalione, che porterà all’annullamento, al dissolvimento delle loro vite.
Come aveva già precisato Aristotele e poi Averroè, la figura della cosa veduta s’imprime nella fantasia e lì vi rimane priva di materia, come “qualcosa di simile a un disegno”, anche in assenza della percezione[11].
L’immagine dell’oggetto amato s’imprime nell’occhio e da lì si trasferisce nella memoria, dove la sua figura è presente anche in assenza dell’oggetto d’amore. Memoria e immaginazione attueranno un concreto atto creativo, per ricreare nella mente quell’immagine, per consentire all’artista, poeta, pittore o scultore, di ridisegnarla o rifletterla in un’effigie. Di ridisegnarla, appunto.
“Acqua est oculus”, dice Averroè[12], e non casualmente tutte le raffigurazioni narcisistiche sono accanto a un pozzo, a uno stagno, una fonte, da Caravaggio a Segantini, che pone una chioma rossa, fluente tanto da nascondere il viso, quella della sua Vanità (1895) sul bordo di un piccolo specchio d’acqua alpino, da lui qui individuata come la Fonte del Male, ma che in altri quadri diverrà la Fonte della Vita. Anche lei alla ricerca dell’ombra nell’acqua.
[1] Come ha scritto Michel Imberty: “L’acqua è il tema simbolista per eccellenza […] Il movimento simbolista, che cerca di liberare la parola dai suoi significati per ritrovare la musica originaria e incantatoria della parola, reinventa infatti uno degli aspetti più profondi del linguaggio poetico, la ‘liquidità’ della parola. Questa liquidità è il grande simbolo universale dell’armonia primitiva che il poeta simbolista ricerca nei suoni del linguaggio”. M.Imberty, Il senso del tempo e della morte nell’immaginario debussiano, in “Nuova Rivista Musicale Italiana”, XXI, 1987, p. 400.
[2] Scrive Baudelaire ne I Fiori del Male:
“È la Natura un tempio dove a volte viventi
colonne oscuri murmuri si lasciano sfuggire:
tu, smarrito entro selve di simboli, seguire
da mille familiari segreti occhi ti senti.
Come echi lontani e lunghi, che un profondo
e misterioso accordo all’unisono induce,
coro grandioso come la tenebra e la luce,
suoni, colori e odori l’un l’altro si rispondono.
Conosco odori freschi come parvole gote,
teneri come òboi, verdi come giardini;
altri, corrotti e ricchi, attingono remote
espansioni, al di là degli umani confini…
E sono il benzoino, l’ambra, il muschio, l’incenso,
che cantano le estasi dell’anima e del senso.”
[3] F. Spampinato, Debussy e la seduzione dell’acqua. Suggestioni e metafore della liquidità nella musica, in “Musica/Realtà”, 2001, pp. 22-35.
[4] F. Spampinato, La poetica dell’acqua in Debussy, in “Diastema”, XIV, 2001, pp. 35-55.
[5] Debussy et le mystère (1949), a cura di E. Lisciani Petrini, trad. C. Migliaccio, Debussy e il mistero, Il Mulino, Bologna 1992. Su Debussy e quanto accennato qui si veda M.F. Cuccu, La “musica sognata” di Claude Debussy, in “XÁOS. Giornale di confine”, 3, II, novembre-febbraio 2003-2004, http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/5.htm
[6] M. F. Cuccu, La “musica sognata” di Claude Debussy, in “XÁOS. Giornale di confine”, 3, II, novembre-febbraio 2003-2004, http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/5.htm
[7] Cfr. Apparitions: Frottages and Rubbings from 1860 to Now, catalogo della mostra (Losa Angeles, Hammer Museum), a cura di A. Pesenti, Los Angeles 2015.
[8] Del moto e misura dell’acqua di Leonardo Da Vinci, a cura di F.Cardinali, Bologna 1828.
[9] M.Davanzo, Il tema dell’“immagine riflessa” nel Lai de l’Ombre di Jean Renart, tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Venezia, a.a. 2011 / 2012.
[10] Il Roman de la Rose è probabilmente il romanzo più amato del medioevo europeo, come testimoniano i più di trecento manoscritti che ce l’hanno trasmesso. La prima parte, che è quella che c’interessa, è stata scritta da Guillame de Lorris nella prima metà del XIII secolo, tra il 1225 e il 1230; la seconda l’ha scritta Jean de Meun tra il 1269 e il 1278. Nel prologo Guillame-narratore “tenta” di conquistare i favori di una dama dedicandole il racconto di un’avventura prima solo sognata e poi realmente accaduta di cui egli è anche protagonista. Un giovane entra in un giardino per cogliervi una rosa; Piacere, il proprietario del giardino, invita l’amante-Guillame a unirsi alla sua compagnia, tra cui c’è il dio Amore. Allontanatosi dall’allegra brigata, giunge alla Fontana di Narciso – centro del giardino – che è anche la Fontana di Amore, “fonte di morte per chiunque non sappia indirizzare rettamente il proprio desiderio oltre la superficie ingannevole dell’acqua”.
Infatti il giovinetto all’inizio ferma lo sguardo sull’immagine riflessa e s’innamora di sé. Soltanto poi, fermando gli occhi sui due cristalli che si trovano sul fondo della fontana – che rappresentano gli occhi dell’amata – “il giovane protagonista si trasforma in un amante capace di orientare positivamente il proprio desiderio”; così Amore può far del giovinetto un suo vassallo ed esporgli i suoi dieci comandamenti. Sconcertato, ma subito rianimato da Bel Acueil – che impersona l’amabilità della fanciulla – egli cerca di cogliere la rosa, ma è respinto da Rifiuto.
de Lorris, J. de Meung, Le Roman de la rose, versione italiana a fronte di G. D. Matassa, L’epos, Palermo 1993.
[11] Aristotele, De memoria (450a): “La passione prodotta dalla sensazione nell’anima e nella parte del corpo che possiede la sensazione è qualcosa come un disegno […] Infatti il movimento che si produce imprime come un’impronta della cosa percepita, come fanno coloro che segnano un sigillo con l’anello”, Parva Naturalia, a cura di J. Tricot, J. Vrin, Parigi, 1951, p. 60.
[12] Come ha rilevato Giorgio Agamben in Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977 (2006), riportato da Davanzo 2011, p. 125, nota 3: “Acqua est oculos, e ciò spiega perché solo quando il sole, che tutto osserva, / getta i suoi raggi nella fontana / e la luce scende fino al fondo / allora appaiono più di cento colori / nel cristallo[…] / e il cristallo doppio che riflette ora una metà ora l’altra del giardino e mai entrambi nello stesso tempo è quello della virtù sensitiva e dell’immaginativa, il che s’intende abbastanza chiaramente se si ricorda che, come Averroè mostra con l’immagine delle due facce dello specchio nelle quali non si può guardare contemporaneamente, è possibile contemplare il fantasma nell’immaginazione (cogitare) o la forma dell’oggetto nel senso, ma mai entrambi nello stesso tempo”.