Rimesso alla sfoglia liquida
di Maurizio Calvesi
Se i vocaboli che terminano in a sono femminili, in o maschili, che dire di artista? Il nostro lontano progenitore che coniò, nel medioevo, la parola, concedetemi di fantasticare che volesse dire femminile il sesso di chi fa arte. E che dell’arte stessa? Il terminale in e è proprio di vocaboli e nomi sia maschili sia femminili (Afrodite o Venere, ma anche Giove e Marte). In francese, del resto, art è maschile, dunque un vocabolo ermafrodita (o si può anche dire, non a caso, ermafrodito).
Queste, che sono bizzarrie di penna, non contrastano però con l’esperienza che ho dell’artistico, o con quel che so di estetologi e psicoanalisti. Nell’arte le due polarità si attraggono e si congiungono; nell’artista, anche di sesso opposto, quel femminile che è presente in ciascuno di noi assume un protagonismo ed esercita una seduzione interna sulla polarità maschile, fino ad addolcirla, superando nella sintesi il conflitto di tratti maschili e femminili. Così può essere (come in Omar Galliani) che il desiderio maschile di un corpo femminile si femminilizzi fino alla sintonia più profonda.
L’interesse (praticamente esclusivo, almeno negli ultimi lavori) di Omar per la figura femminile sembra in effetti far capo non soltanto a una seduzione esterna, ma anche interiore, cioè al protagonismo emergente della polarità femminile interna dell’artista. Se potrò chiamarla autofemminilità, ecco allora che Omar, proiettandola e contemplandola, asseconda un altro suo connotato di sottile ma intensa evidenza, il narcisismo.
Il sofferto narcisismo del femminile è tratteggiato del resto in molti dei trasfiguranti disegni che la matita di Omar intensamente produce: osservo ad esempio il disegno in copertina del recente catalogo Skira Nuove anatomie. Noto la diversificazione dei tratti di contorno tra loro e, all’interno della figura, il contrasto delle lievi ombreggiature con le fioriture come zampillanti di rosso sangue.
Le palpebre calate non già su un sogno, piuttosto su un intimo tormento, hanno la carezzevole leggerezza di quelle esigue zone d’ombra, ma le trafitture dell’animo aprono varchi nell’epidermide perlacea, impregnano il velo e lasciano scorrere tracce metaforicamente cruente lungo il candore del collo e della spalla.
Leonardo, nume di Omar, scrisse: “Fuggi i profili, cioè i termini espediti delle cose. Non fare i termini delle tue figure d’altro colore che del proprio campo, con che esse figure terminano, cioè che non faccia profili oscuri infra il campo e la sua figura”.
Galliani si attiene, nella profilatura della testa, dove del resto riaffiora, come in tanti altri suoi disegni, anche la memoria del celebre, ma qui reinventato, “sfumato”; si attiene nella profilatura della testa ma non del collo e del busto, dove un’acuminata linea di separazione incide il contorno, spietata affilatura come il bisturi di un chirurgo, trapasso dalla nuvola dei pensieri dietro la fronte al pungente cruccio del cuore. E, dal lato opposto, le agopunture che risalgono la schiena fino alla nuca non sono di sollievo ma di ulteriore, doloroso pungolo.
In altri disegni di Galliani questa linea che circonda la figura può assomigliare a un filo spinato, quasi una coronazione di spine per l’intero corpo o sue parti, ma anche a un filo elettrico che comunichi stimoli e scosse agli emisferi cerebrali, come nella terapia psichiatrica. E il rosso a tratteggio incalzante continua a segnalare ferite e sanguinazioni fino a drammatici (sadici?) sbocchi dalle labbra, oppure a mettere a nudo arterie o terminali nervosi attivati da traumi interiori. Tratti però, questi, forse più “maso”, testimonianza di uno strazio della propria anima, se è vero che la seduzione interna del femminile si spinge fino a una compassionevole identificazione.
Di “figure dell’anima”, del resto, ha parlato Sandro Parmiggiani intervistando Galliani: anima, proprio quel femminile che abita in ciascuno, e ai cui richiami l’artista (lo artista, o la artista), cioè colui o colei che esplora l’anima con gli unici mezzi davvero congeniali, quelli ineffabili dell’arte, non può sottrarsi.
“Ho scelto soggetti femminili non a caso – dice Omar – perché la donna è vita e morte, biologia originaria a cui apparteniamo. La donna diventa simulacro, simbolo che comprende, senza annullarlo, il maschile”.
È noto che le immagini femminili di Galliani derivano in più casi dai corpi e volti di donne contemporanee che le riviste riproducono o ostentano, in particolare quelle di moda, offrendo allo sguardo distratto documenti mondani, ma all’occhio penetrante radiografie di tormentate identità. Fotografie e radiografie, dunque; e di entrambe l’ossessivo bianco e nero di Omar è la restituzione trasfigurata, in un doloroso esito di bellezza. Fotografia come pelle, e anche il disegno – Galliani lo ripete spesso – è “pelle”, ma pelle quale esile diaframma tra un esterno atmosferico di delicate ombre-luci e un interno di palpitanti, nascosti riscontri; quando, con i rossi, non di affioranti travasi di vene.
La pelle come specchio dell’anima, allora. Ma perché questa vocazione a tessere la “pelle”, a privilegiare il disegno, a dare scacco alla fotografia? La risposta è nell’ormai lunga carriera di Omar, che fin dagli inizi registrò questa scelta, ma per un preciso bisogno: un bisogno poetico, fin da allora, di leggerezza e insieme di delicata esaltazione della profondità del sentimento. Il pennello scivola sulla tela per formare grommi aggettanti, asseconda il trascorrere della luce; la punta della matita, invece, “incide” la superficie su cui preme e ferma il battito della luce in una fusione di punti. Il pennello ricopre la superficie, la matita incontra le venature della carta e soprattutto le scabrosità della tavola.
Questa autentica invenzione di Galliani che è il disegno su tavola recupera un supporto che fu protagonista nell’arte del passato fino alle maestose dimensioni delle pale d’altare, e così facendo, mentre dà vita a un nuovo momento della modernità, innalza alla più collaudata solennità della grande arte un “genere” come il disegno, dimostrando come “minore” non sia. La fenomenologia del disegno si arricchisce di esiti inediti. Per effetto della luce i nodi del legno sovrappongono all’immagine un riflesso cangiante. In alcune parti una tessitura di graffi, ottenuta sfregando della carta vetrata sulla superficie naturale del pioppo, affiora sotto al traslucido della matita, moltiplicando le vibrazioni.
All’imponente formato di una pala d’altare si agguaglia, in effetti, il Grande disegno italiano del 2005, che misura cinque metri per sei e trenta. È un’immagine che soggioga, per un concorso simbiotico di momenti: soggioga la dimensione, soggioga la luce che si riflette magicamente con l’immagine nell’acqua; soggioga la bellezza del volto, dagli occhi abbassati sul naso diritto e le labbra carnose, sotto alla fronte spaziosa, abitata da pensieri indecifrabili come un celebre sorriso: specchio di luce, la fronte e tutto il volto, percorso da mezzombre sotto all’ampia gettata delle arcate sopracciliari, incorniciato dalle ombre invece adunate nella capigliatura e nel collo.
Qui il precetto leonardesco (“fuggi i profili”) è integralmente rispettato: non facendo i termini della figura “d’altro colore che del proprio campo”, il volto sfuma nell’atmosfera e potrebbe svaporare come un sogno, ma persiste, nell’immensa vastità del “campo”, sogno infinitamente prolungato e rimesso alla liquida sfoglia del rispecchiamento.
Il disegno di Leonardo, che abita attiguo, non è un segnale di albagia, ma di omaggio: omaggio all’invenzione di uno stile che al moderno diede l’avvio, e di cui si può mostrare la capacità di trasfigurazione nel contemporaneo; e omaggio alla profondità di quelle incancellabili radici che consentono di parlare di “grande disegno italiano”. Dove “grande” è misura fisica ma anche di spiritualità, e associato a “italiano” segnala la vincente persistenza di una inesauribile identità.
“Delle cose specchiate nell’acqua quella sarà più simile in colore alla cosa specchiata, la quale si specchia in acqua più chiara”, troviamo nel trattato vinciano, e invece: “Sempre le cose specchiate in acqua torbida partecipano del colore di quella cosa che intorbida tale acqua”.
Specchiandosi, l’immagine leomardesca affonda nella penombra del mistero, ma esalta la flagranza del proprio narcisismo, e si rischiara nella memoria attualizzata del mito.
* Da Omar Galliani. Il Grande Disegno Italiano, cat. mostra, Fondazione Querini Stampalia, in occasione della 52ª Biennale internazionale d’arte, Venezia, 2007.